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Andy Warhol Superstar

Andrew Warhol Jr è stato non solo il più acuminato interprete della società di massa e del consumismo, folgorante sociologo dell’America Anni ‘60, ma è stato anche colui che ha saputo trasformare in arte i feticci dell’immaginario collettivo americano, anticipando l’instaurarsi del potere dei mass media.
Andy Warhol fotografo, regista, designer e illustratore, padre della Pop Art che ha trasformato in icone la Coca Cola, Elvis Presley, la Campbell’s Soup, Liz Taylor e Marilyn Monroe, il biglietto del dollaro e Jackie Kennedy.
Andy Warhol Superstar una definizione che appare scontata e che rimanda alla figura dell’artista simbolo di una New York edonista e scatenata, che diventò punto di riferimento di grandi attori e attrici, rock star, stilisti e persino politici.

La mostra con 140 opere racconta tutto il suo percorso professionale presentandone i capolavori di ogni periodo: partendo dalla coloratissima Liz (1964), passando per i dipinti dei francobolli, come S&H Green Stamps (1965), fatti con stampini ripetuti e più e più volte sulla carta arrivando all’immancabile Marilyn – tra le quali in mostra quelle del 1967, del 1970 e del 1985. E ancora, cinque splendide Cow (dal 1966 al 1978) accanto ad altre super icone: le Brillo Box e i primi Flowers (1964), esposte a suo tempo nella prestigiosa galleria di Leo Castelli come se fossero sgargianti carte da parati. E anche la serie Ladies and Gentlemen (1975), la serigrafia dell’intramontabile Brillo Box (1970), i Flowers (1970 e 1974), i Mao (1972 e del 1974), con i quali Warhol inaugura una nuova pittura meno neutrale e più gestuale senza dimenticare le Campbell’s Soup (1968/69), il Mick Jagger (1975) donato e dedicato da Andy Warhol all’attrice Dalila Di Lazzaro e i Camouflage del 1987.
Warhol moriva in quell’anno, dopo essere scampato miracolosamente alla nera signora nel 1968 quando una pazza gli spara al ventre.

Il percorso della mostra che si avvia negli anni Cinquanta, quando Warhol debutta nella commercial art e lavora come illustratore per riviste prestigiose (da Harper’s Bazar al sofisticato New Yorker) e
come disegnatore pubblicitario vuole raccontare l’incredibile vita di un uomo, personaggio e artista, che ha cambiato i connotati del mondo dell’arte ma anche della musica, del cinema e della moda, che ha stravolto radicalmente qualunque definizione estetica precedente. I suoi 5 minuti di celebrità continuano ancora.

Con il Patrocinio della Regione Veneto e Provincia di Belluno, del Comune di Cortina d’Ampezzo e Campionati del Mondo di Sci Alpino Cortina d’Ampezzo 2021, la mostra è prodotta e organizzata da Arthemisia ed Eugenio Falcioni, in collaborazione con Art Motors, ed è curata da Gian Camillo Custoza.

LA MOSTRA

Prima sezione

Dal trasferimento a New York ai lavori occasionali come grafico, gli anni Cinquanta costituiscono il vero esordio di Andy Warhol. Si fa notare dalle riviste di moda più importanti e la sua ascesa è velocissima. Inizia a collaborare anche con la maison di gioielli Tiffany, prima come vetrinista e poi come pubblicitario. Nel 1962 comincia a usare la serigrafia e crea la serie di Campbell's Soup, minestre in scatola che dagli scaffali dei supermercati, Warhol trasforma in opere d’arte. In seguito arrivano le serie dedicate a Elvis, a Marilyn, alla Coca-Cola. A colpire Warhol, sono quegli oggetti che abbattono il divario tra ricchi e poveri, perché una Coca-Cola se la può permettere chiunque, e per quanto sia enorme il potere d’acquisto di un milionario, la sua Coca-Cola non sarà più buona di quella di un altro. Nel 1963 fonda la sua Factory, che diventa il centro catalizzatore della cultura underground. Prima di editare la rivista di culto Interview nel 1969, ha tempo di realizzare vari film e di teorizzare i famosissimi “15 minuti di celebrità per tutti”. Una celebrità che è il suo obiettivo principale. Dipinge incessantemente nella metà degli anni Settanta, usando come base le Polaroid scattate ai tanti personaggi che continuano a popolare la Factory: Sylvester Stallone, Liza Minnelli, Caroline di Monaco e Mick Jagger.
All’interno di questa sezione opere come: Liz e Flowers (1964), S&H Green Stamps (1965),
Marilyn (1967) e Cow (1966,1971,1976).

Seconda sezione

Gli anni Ottanta incoronano Warhol come il più noto nonché prolifico artista vivente. Sono moltissimi anche gli autoritratti, così come le opere dedicate al mondo immaginario dei fumetti, delle fiabe e dei romanzi, da Superman a Dracula, da Topolino a Babbo Natale. Nel 1983 realizza una serie che sembra discostarsi dal mondo provocatoriamente amorale che ha abbracciato fino a quel momento: dieci serigrafie che rappresentano altrettanti animali in via d’estinzione: sostiene infatti che non ci può essere opera d’arte più grande che l’azione di preservare la Terra. Il suo lavoro si fa più evocativo e si concentra su particolari meno a fuoco rispetto all’immaginario collettivo. Non si può parlare di una svolta concettuale, perché la pop culture continua a essere la sua cifra, ma certo le sue opere sembrano più riflessive. In questi anni Warhol viaggia per il mondo intero. L’ultima sua meta sarà l'Europa: Milano e Parigi, tra il 18 e il 24 gennaio 1987, quando presenta la serie dedicata all'Ultima Cena di Leonardo. Il 22 febbraio del 1987, muore sotto i ferri di una semplicissima operazione alla cistifellea, lasciando il mondo orfano di un artista che, come pochi altri, ha cambiato il corso della storia dell’arte. Un artista che diceva di non volersi occupare di politica, ma che è riuscito a influenzare le masse. Un artista che diceva di non ricercare alcun messaggio impegnato nelle sue opere, ma che ha condizionato la concezione moderna del pensiero. Un artista i cui 15 minuti di celebrità dureranno in eterno.
All’interno di questa sezione opere come: Absolute Vodka (1985), Teddy Roosevelt e John Wayne (1986), Hans Christian Andersen, Camouflage e Moonwalk (1987).

 

Scheda Tecnica della mostra

Titolo
Andy Warhol Superstar

Sede
Museo d'Arte Moderna Mario Rimoldi C.so Italia, 69
Cortina d’Ampezzo

Date al pubblico
7 dicembre 2018 – 22 aprile 2019

Informazioni
www.musei.regole.it
T +39 0436 866222 / 0436 2206

Orario apertura
dal 7 dicembre 2018 al 6 gennaio 2019 Tutti i giorni
10.30 - 12.30 / 15.30 - 19.30
(ultimo ingresso 30 minuti prima)

dall’8 gennaio al 22 aprile 2019 lunedì chiuso
da martedì a domenica 15.30 - 19.30 (ultimo ingresso 30 minuti prima)

Aperture straordinarie
lunedì 22 aprile 15.30 - 19.30 (ultimo ingresso 30 minuti prima)

Biglietti
Intero € 13,00
Ridotto € 11,00

65 anni compiuti (con documento); ragazzi da 11 a 18 anni; studenti fino a 26 anni non compiuti (con documento); residenti; soci Touring Club Italiano; soci CAI; gruppi (minimo 15 persone); insegnanti; associati MAMBo – Museo d’Arte Moderna di Bologna; FAI – Fondo Ambiente Italiano; regolieri; grandi invalidi con accompagnatore; Amici dei Musei delle Regole d’Ampezzo; giornalisti tesserati; possessori Carta Giovani del Comune di Cortina.

Ridotto bambini € 6,00
bambini dai 6 ai 10 anni compiuti

Biglietto Famiglia
Biglietto ridotto € 11,00 per genitore/genitori/familiare + biglietto bambini € 6,00 (6 – 10 anni). Riduzioni non cumulabili.

Biglietto Open € 15
Consente l’ingresso alla mostra senza necessità di bloccare la data.
Il biglietto open va convertito in biglietteria il giorno della visita.
Omaggio
Bambini fino a 6 anni non compiuti; 1 accompagnatore per gruppo; Soci CAI Cortina; Associati: MART – Casa d’Arte Futurista Depero – Casa Morandi e Museo per la Memoria di Ustica – Fondazione Peggy Guggenheim Venezia – Pordenone Arte Contemporanea – Fondazione Querin Stampalia; possessori Vip Card Arthemisia, Soci ICOM. giornalisti con regolare tessera dell’Ordine Nazionale (professionisti, praticanti, pubblicisti) in servizio previa richiesta di accredito da parte della Redazione all’indirizzo Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

Con il Patrocinio di
Comune di Cortina d’Ampezzo
Campionati del Mondo di Sci Alpino Cortina d’Ampezzo 2021
Regione Veneto Provincia di Belluno

Mostra prodotta e organizzata da Arthemisia Eugenio Falcioni
In collaborazione con Art Motors
Sponsor Hublot
Mostra a cura di Gian Camillo Custoza
Progetto grafico in mostra e immagine coordinata PepeNymi
Realizzazione grafica in mostra Pubblilaser
Catalogo Arthemisia Books
Hashtag ufficiale #WarholCortina

Andy Warhol: riproducibilità tecnica dell’opera d’arte, mercato, e società di massa

Testo di Gian Camillo Custoza, curatore della mostra

«Alcune aziende erano recentemente interessate all'acquisto della mia aura. Non volevano i miei prodotti. Continuavano a dirmi: “Vogliamo la tua aura”. Non sono mai riuscito a capire cosa volessero. Ma sarebbero stati disposti a pagare un mucchio di soldi per averla. Ho pensato allora che se qualcuno era disposto a pagarla tanto, avrei dovuto provare ad immaginarmi che cosa
fosse.»

Andy Warhol

L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, è un fondamentale saggio di critica, scritto da Walter Benjamin. Il soggetto, e i temi di quest’opera, hanno profondamente influenzato, non solo la storia dell’arte del Novecento, ma anche la coeva teoria dell’architettura, oltre che i contemporanei studi sul ruolo dei massmedia.
Benjamin interpreta la novitas della riproduzione tecnica dell’opera d’arte, entro la contemporaneità di una modernità, l’epoca della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte appunto, fondata su una parusia, già definita, si pensi a Platone e al Platonismo, quale presenza dell’idea nella realtà sensibile, una moderna katèchon questa, un tempo dilatato caratterizzato dalla proiezione escatologica e apocalittica dell’esperienza, frequentata da Benjamin, anche in relazione alla relativa moderna nozione filosofico politica cara alla filosofia novecentesca, si pensi ad esempio a Carl Schmitt; è uno sconvolgimento questo, che liquida, rendendole definitivamente inutili, tutta una serie di idee tradizionali, quali i concetti di creatività, genialità, valore eterno, mistero; siamo dinanzi a un cambiamento radicale che demolisce ogni aura, azzera ogni unicità, e irripetibilità, della creazione artistica.
La rivoluzione benjaminiana considera la riproducibilità dell’opera d’arte come il fattore fondamentale capace di trasformare la funzione stessa dell’opera d’arte. La tradizione riconosceva l’arte posta al servizio di un rituale, prima magico, poi religioso, ora, la riproducibilità, cambia la funzione stessa dell’opera d’arte, al posto della sua tradizionale istituzione nella prassi, quest’ultima, istaura, una nuova fondazione in una nuova consuetudine. La nuova arte, così ridefinita, potrà divenire, allora, funzionale ad altri scopi. Ad esempio, questo nuovo modo di intendere l’arte, una modalità di approccio nella quale anche Benjamin si riconosceva, giunge a equiparare arte e moda. È allora utile considerare, anche in rapporto ad un’opportuna esegesi warholiana, in quali ambiti oscillatori, Benjamin si dibatta, al fine di dimostrare una tesi precostituita; attraverso passaggi arditi, che vanno dal religioso al magico, dal rituale alla tecnica, ed appunto, alla moda, l’arte per Benjamin, è sempre qualcosa d’altro, finendo così per annichilire, per non esistere; in questo senso, è indicativa la palese mancanza di un filo conduttore chiaro; che non sia questa la tesi precostituita ad uso di una manualistica rivoluzionaria? Si tratterebbe in sintesi della riprova di una volontà di arrivare alla liquidazione dell’arte, e dell’artista, in funzione di un fine? Come in molte altre azioni umane, anche qui, potremmo trovarci dinanzi all’implacabile incombenza di una eterogenesi dei fini? Certo la parusia del moderno, vanificando l’aura, cancella ogni autonomia dell’arte alimentando un’inconsolabile nostalgia del perduto, una malinconia questa, che accompagnerà, per sempre, l’individuo, lungo i percorsi di un mondo dis-graziato, dove egli si è autocondannato a vivere, solo, spaesato, e privo di punti di riferimento, vagando povero e solitario nel panorama dello sgretolamento della tradizione. Entro tale mutamento, l’avvento di una siffatta novitas, comporta la perdita irrimediabile di quell’unicità irripetibile che ha contraddistinto la traditio occidentale, la specificità dell’opera d’arte, la sua autenticità; la tecnica trasforma cosi l’opera in prodotto, il pubblico in massa, prima consuma, e poi esercita il ruolo di giudice ed interprete.

Certo, la natura problematica e contraddittoria della modernizzazione novecentesca non appare, in Benjamin, centrale, come poi, sappiamo, si sarebbe rivelata, fino a diventare il nodo gordiano di ogni interpretazione del Novecento. Indiscutibilmente, Benjamin introduce nella sua opera questioni di stringente attualità, temi questi, credo, assai significativi nell’ambito di una corretta esegesi warholiana; il filosofo tedesco assume una posizione chiara e didascalica, caratterizzata da sorprendente originalità, mette in crisi ogni velleitaria certezza modernista, demolisce molte aspettative; egli non rinuncia a leggere l’avvento delle nuove tecniche, il loro carattere di fenomeni di massa, da un punto di vista che, si veda Cesare Cases, considera tale processo, non solo inevitabile, ma anche largamente positivo. Mentre annuncia l’alternativa tra estetizzazione della politica e politicizzazione dell’arte, Benjamin, profeta di un Europa al tramonto, descrive la scena della propria contemporaneità, come lo spazio di uno scontro tra tradizione e rivoluzione.
La perdita dell’aura dell’opera d’arte non dipenderà però, tanto, dalla sua riproducibilità, quanto deriverà, in larga parte, dall’iperbolica accelerazione dell’innovazione tecnico-scientifica novecentesca, un fenomeno questo, che produrrà il contesto in cui le forme artistiche potranno ri- assumere pieno valore; cosi il malinconico Benjamin, inquieto e preoccupato testimone dell’affermazione del moderno, diverrà l’appassionato oracolo di una rivoluzione generata dall’energia innovativa delle forze produttive, le quali condurranno, fino in fondo, alla distruzione dell’aura, sviluppando, in tutti i sensi, siamo a Warhol, le enormi potenzialità della riproduzione tecnica; l’arte andrà oltre se stessa, esprimendo, non solo rispecchiando, la marxiana struttura economico sociale.
Esistono quattro stesure del saggio l’opera d’arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica: la prima fu scritta da Benjamin tra il settembre e l’ottobre del 1935; la seconda tra la fine del 1935 e il febbraio 1936; la terza fra il gennaio e l’aprile 1936; la quarta, fra la primavera del 1936 e il 1939. Mentre le prime due stesure rimasero inedite durante la vita dell’autore, la terza, fu pubblicata per la prima volta a Parigi nel 1936, nella rivista Zeitschrift für Sozialforschung, in traduzione francese curata da P. Klossowski. La prima traduzione italiana fu condotta sulla quarta stesura ed apparve nel 1966 per i tipi dell’editore Einaudi, in un volume, che comprendeva, oltre al saggio, anche la traduzione degli scritti beniaminiani Piccola storia della fotografia (edizione tedesca 1931), Eduard Fuchs, il collezionista e lo storico (edizione tedesca 1937) e due saggi su Brecht: Che cos'è il teatro epico? (edizione tedesca 1939) e Commenti ad alcune liriche di Brecht (edizione tedesca postuma, 1955). Nel VI volume delle Opere complete di Benjamin, pubblicate da Einaudi, sono disponibili anche la seconda stesura e la terza stesura in francese.
Oggi il saggio è considerato uno dei testi classici dell’estetica del Novecento e continua a esercitare una forte influenza relativamente all’analisi e alla valutazione della cultura di massa.
Benjamin si distingue dagli altri pensatori della Scuola di Francoforte; egli perviene a un giudizio sull’arte di massa, non di netta condanna, ma anzi, capace di evidenziarne sia i rischi che le potenzialità emancipatorie. Nel saggio l’opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, l’autore sostiene che l’aura di un lavoro artistico venga svalutata dalla sua riproduzione meccanica. Benjamin concepisce una teoria dell’arte fruibile in ragione della capacità di formulazione di esigenze rivoluzionarie, attuabili nell’ambito della politica culturale. Nell’epoca della riproduzione meccanica, tali esigenze, nonché l’assenza del valore tradizionale e rituale dell’arte, rendono possibile che la produzione artistica sia intrinsecamente basata sulla prassi. Benjamin sostiene che l’introduzione, all’inizio del XX secolo, di nuove tecniche per produrre, riprodurre e diffondere, a livello di massa, opere d’arte, abbia radicalmente cambiato l’atteggiamento verso l’arte, sia degli artisti, sia del pubblico. L’autore dell’opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica intreccia fondamentalmente due temi: la riflessione sul rapporto tra arte e tecnica; la fruizione dell’opera d’arte nella società di massa.

Benjamin pensa che alcune caratteristiche tradizionali dell’arte, cioè i concetti di creatività, genio, valore eterno e mistero, possano essere improvvidamente utilizzate recidendo l’arte dal suo legame con la vita quotidiana e con le condizioni concrete dell’esistenza, escludendo dalla fruizione dell’arte stessa le persone comuni. Egli si scaglia contro questo perverso utilizzo dell’esperienza artistica, intesa come strumento di controllo delle masse, talvolta attuato attraverso un’estetizzazione della politica. In tal senso, l’esperienza estetica può essere perniciosamente strumentalizzata come forma di comunicazione non razionale e carismatica, anche allo scopo di coinvolgere e massificare la folla. Viceversa Benjamin intende proporre una serie di concetti estetici, nuovi, funzionali alla liberazione e all’emancipazione rivoluzionaria. Egli sottolinea che l’opera d’arte, in passato già riproducibile, è stata riprodotta, per studio, amore o guadagno, attraverso procedimenti, quali la silografia e altre tecniche grafiche, ma tutte queste forme di riproduzione erano comunque procedimenti artigianali, caratterizzati da dimensioni limitate, legati alla velocità della mano. La stampa è stato il primo procedimento di riproduzione meccanico; questa ha trasformato profondamente la produzione della parola scritta e le sue forme di fruizione. Allo stesso modo, e con lo stesso ritmo, la litografia ha reso possibile una riproduzione e una diffusione commerciale delle immagini, capace di riprodurre, e di riconfigurare, il rapporto tra l’oggetto dell’arte, tradizionalmente elevato, e la vita. Le antiche tecniche erano tuttavia ancora legate al ritmo della manualità; la fotografia e la ripresa cinematografica, dipendenti dall’occhio, hanno invece impresso un’ulteriore accelerazione, raggiungendo la velocità dell’oralità e dell’azione. Le potenzialità tecniche del Novecento non si sono limitate a modificare la capacità di produzione, e riproduzione, artistica, ma hanno modificato anche i modi e le forme della fruizione dell’arte da parte del pubblico. La riproduzione, tecnicamente perfetta, della fotografia o del cinema, ha cambiato lo statuto stesso dell’opera d’arte. Nel passato la relazione tra l’arte e lo spettatore era definito dall’unicità e irripetibilità dell’opera d’arte, dal suo esistere esclusivamente hic et nunc. Appartiene a tale traditio, a questa unicità, tutta la storia concreta di ogni singola opera, con le sue modificazioni materiali e i suoi passaggi di proprietà. Questa dimensione genetica e temporale dell’esistenza artistica, si condensa nella sua autenticità: rispetto a questa, ogni forma di riproduzione manuale risulta fraudolenta. Tuttavia la contrapposizione autentico-falso non ha senso nell’età della riproduzione tecnica, poiché quest’ultima non si limita a riprodurre, ma propone l’opera d’arte in un contesto diverso rispetto a quello tradizionale della sua fruizione: la riproduzione fotografica o discografica a esempio, consente di traslocare l’opera in un contesto di consumo quotidiano. La riproduzione replica l’opera d’arte, sottraendole l’autenticità che ne costituiva, nel passato, la caratteristica fondamentale, quell’essenza stessa, dal punto di vista della fruizione, che qui, viceversa, si trasforma in consumo. Da evento irripetibile l’opera si trasforma attraverso la moltiplicazione delle riproduzioni. Questo fenomeno è strettamente collegato all’avvento della società di massa, e all’affermazione delle sue caratteristiche forme artistiche. Allo spettatore si sostituisce il pubblico, alla fruizione il consumo: ciò attualizza il ri-prodotto.

Analogamente, nella poiesi di Andy Warhol, assistiamo al trionfo della produzione reiterata dell’opera d’arte, la quale diviene, prodotto commerciale, merce; qui i colori sono quelli prelevati dalla frequentazione dei prodotti di consumo, i soggetti sono le icone dello star system, Marylin Monroe, Jacqueline Kennedy, Liz Taylor, Elvis Presley, ma anche Lenin, già effige archetipica del socialismo reale sovietico, imbalsamato nel relativo mausoleo di Mosca. Talvolta l’arte di Warhol non è esente dalla percezione dell’idea della morte, una presenza questa, che in alcuni soggetti - penso alle icone tristi di James Dean e Marylin Monroe, morti prematuramente - è latente, ma che viceversa, nelle rappresentazioni di teschi, della sedia elettrica e nelle fotografie che riproducono scene di cronaca nera, incidenti aerei e automobilistici, per loro stessa natura, si dà, in tutta la sua artificiale, fredda, negazione della vita, si manifesta cioè, in una serie di moderne vanitas, che sono però volte a reificare la vita, sono vocate a esorcizzare il timore della morte; oltre la maschera trasgressiva che lucidamente si è calata sul volto, Warhol fa qui trasparire una sconcertante consapevolezza della vita.
In Warhol, la tecnica partecipa attivamente alla trasformazione dell’opera in prodotto, del pubblico in massa. Tutta la produzione warholiana subisce l’affermazione della logica del mercato a partire dalla relazione genetica con i concetti di massa e consumo.
Nell’opera di Warhol le immagini pop sono assunte e riformulate pittoricamente; divengono vere e proprie icone del moderno. Andy è un artista pop eminentemente paradigmatico; se Roy Lichtenstein predilige il fumetto e Claes Oldenburg sceglie gli oggetti di uso quotidiano, Warhol elegge l’immagine commerciale, e tutto ciò che la veicola, a soggetto della sua opera. Egli rappresenta, scientemente, etichette commerciali, divi e altri personaggi iconici; l’immagine è frontale, definita da un montaggio di inchiostri molto carichi, i capelli sono spesso neri o gialli, le labbra quasi sempre rosse, l’ombretto, di frequente, blu. Il soggetto, è collocato su di uno sfondo astratto, a volte di colore arancione, altre volte verde. La ripetizione seriale del soggetto riprodotto, sia nei ritratti che nei soggetti raffiguranti i prodotti di consumo - penso in quest’ultimo caso alle opere dedicate alla Coca Cola o alla Campbell - compone un’immagine, che, in una stessa opera, replica, a modello della ripetizione continua delle immagini pubblicitarie prelevate dall’iconografia propria dell’industria di massa e dei media, il medesimo soggetto. L’arte perde in questo modo la sua caratteristica tradizionale, l'aura. Tale radicale trasformazione, già letta con lucida previsione da Benjamin, può essere intesa, indagando il contesto warholiano, qualora si comprenda che qui, il senso di essa, è dato dalla fruizione dell’arte stessa, in quanto questa è legata a premesse sociali e a condizioni concrete della sua produzione e della sua destinazione, le quali hanno subito non pochi cambiamenti nel corso della storia.
Benjamin spiega il concetto di aura, risalendo alle origini dell’opera d’arte, la quale, prima di essere oggetto estetico, compare come oggetto di culto e di devozione. Non solo le opere d’arte appartenenti alle diverse culture primitive e antiche, ma anche, a esempio, un dipinto rinascimentale, rispondono a questa destinazione originale.
L’aura dell’arte tradizionalmente intesa, conserva la dimensione cultuale della manifestazione divina. Superando progressivamente questo valore cultuale, si è andato invece affermando il valore meramente rappresentativo, questo consta in una considerazione estetica, profana, indipendente dall’originario contesto religioso: l’opera - penso alle grandi collezioni del Seicento e del Settecento - vive trasposta in uno spazio diverso, quello della collezione, anch’esso caratterizzato da separatezza e unicità rispetto allo spettatore. Si tratta pur sempre di un rituale, sia pure secolarizzato, in cui si esercita il culto della bellezza come apparizione, teofania di una realtà che sembra trascendere le proprie caratteristiche materiali. In questo si concretizza l’aura dell’opera d’arte secondo la tradizione e le modalità di creazione e fruizione estetica.
L’età della riproducibilità tecnica, e del consumo da parte delle masse, costituisce una nuova trasformazione delle premesse sociali e delle modalità di percezione dell’opera d’arte, le quali ora dipendono da due fattori: lo sviluppo della tecnica e l’affermarsi della società di massa. Assistiamo allora a una liquidazione generale dell’arte tradizionale, cioè dell’aura e della unicità e dell’autenticità. L’importanza delle masse nell’età contemporanea si manifesta per la ricezione dell’arte in due modi:
• come desiderio di avvicinare e impossessarsi dell’opera d'arte, attraverso la sua riproducibilità;
• attraverso la trasformazione della durata dell’opera d’arte, già evento unico e irripetibile, ed ora, nella labilità della sua riproduzione, consumata sotto forma di immagine, a esempio nelle illustrazioni della carta stampata o di altri media.
Secondo Benjamin, tecniche quali il cinema, il fonografo, la fotografia, ma potremmo aggiungere la serigrafia e la litografia in Warhol, come pure, ancora, le attuali riproduzioni digitali, invalidano la concezione tradizionale di autenticità dell’opera d’arte. Tali tecniche, permettono un tipo di fruizione nella quale perde senso distinguere tra fruizione dell’originale e fruizione di una copia. Mentre nel caso di un dipinto, ad esempio quattrocentesco, non è la stessa cosa, guardare l’originale o osservare una copia, per un prodotto industriale, o per un film, questa distinzione non esiste, in quanto, ad esempio nel caso del film, la fruizione dello stesso avviene mediante migliaia di copie che vengono proiettate contemporaneamente in luoghi diversi e nessuno degli spettatori del film ne fruisce in modo privilegiato, rispetto a qualsiasi altro spettatore.
In forza di ciò si realizza il fenomeno che Benjamin chiama la perdita dell’aura dell’opera d'arte. L’aura, concetto che Benjamin elabora prelevandolo da Baudelaire, è una sorta di sensazione, di carattere mistico o religioso in senso lato; essa è suscitata nello spettatore dalla presenza materiale dell’esemplare originale di un’opera d’arte. Secondo Benjamin, l’arte nasce, storicamente, in connessione con la religione e proprio il fenomeno dell’aura ha costituito, per molto tempo, una traccia di questa sua origine. Il concetto di arte per l’arte, tipico dell’estetismo decadente, rappresenta secondo Benjamin l’ultimo correlativo, in sede di teoria estetica, del fenomeno dell’aura. Ma contemporaneamente al decadentismo nasce la cultura di massa, per Benjamin, proprio quest’ultima, ha iniziato, per la prima volta, a rimuovere l’aura dalle opere artistiche. Le due forme tipiche, sotto cui si palesa l’arte del Novecento, la cultura di massa e l’avanguardia artistica, sono secondo Benjamin entrambe accomunate dalla perdita dell'aura. Avendo perso con l’aura il suo carattere di sacralità, stando a Benjamin, il suo aspetto cultuale, l’arte del Novecento, si pone l’obiettivo di cambiare direttamente la vita quotidiana delle persone, influenzando il loro comportamento.
È dunque assai utile, avere riletto, ancora una volta, l’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, di Walter Benjamin, un testo questo che, a mio parere, sottende l’opera artistica di Andy Warhol, relazionandosi con quest’ultimo a partire dalla nota definizione benjaminiana di artista produttore: l’artista, essendo un produttore deve confrontarsi sul mercato, per trarne la sua stessa esistenza. e per dimostrare il suo valore. Questo produttore malinconico di cacciariana memoria, se da un lato è figlio della famosa ammirazione di Benjamin per Baudelaire - si pensi al Walter “flaneur” che a Parigi passeggia spensierato per le strade della città, ed ancora, dall’altro, è innervato dall’idea di autore come produttore - presentata dal filosofo, nel 1934, in occasione della famosa conferenza da egli stesso tenuta nella capitale francese e intitolata appunto l'autore come produttore, va comunque inquadrato in quella teoria della conoscenza, e del progresso, che fonda l’intero grande progetto del Passagen-Werk: nessuna connessione è causale tra economia e cultura; la relazione è di tipo espressivo; la cultura non rispecchia la struttura economico sociale. Espressione significa, sì, connessione necessaria, ma anche comprensione interpretante, dove rappresentante e rappresentato si condizionano reciprocamente, scambiandosi spesso anche le parti.
Walter Benjamin è testimone oculare della svolta industriale dell’immaginazione collettiva, siamo negli anni trenta del Novecento, quando nuove muse, quali il cinema, la fotografia, la discografia, tutte modalità espressive legate a dispositivi tecnologici, sia in fase di produzione che in fase di fruizione, prendono il posto delle forme tradizionali d’arte, scultura e pittura a esempio, quali riferimenti principali nell’immaginario collettivo.
Benjamin si interroga circa il ruolo, sempre più centrale, assunto dalla tecnologia nell’ambito della trasmissione della cultura. Ora le opere d’arte, in qualsiasi forma, si presentano come merci derivanti da un processo di produzione, intensamente intriso della dimensione sociale propria della società che le produce. I mass media, in quanto dispositivi tecnologici, appaiono al filosofo come un potente mezzo di propaganda ideologica e quindi di flusso monodirezionale della trasmissione culturale.

Già allora, la produzione artistica anche in connessione con il coevo sistema mediatico, lasciava presagire una erosione sistematica della separazione culturale tra autore e pubblico, una dicotomia questa imputabile alla natura stessa del dispositivo tecnologico di mediazione. Per Benjamin l’artista è un mero produttore che si vede scalzato, nel suo già a lui noto inutile lavoro, da strumenti nuovi, la fotografia e il cinema, a esempio. In tale contesto, l’opera d’arte viene smascherata, dissacrata, perde definitivamente, forse irrimediabilmente, l’attributo fondamentale, la sua prerogativa per certi aspetti costitutiva, quell’aura, conferitale da quell’ hic et nunc, che secondo Benjamin la connota e la deve connotare. L’artista è allora un mero produttore, inserito come altri produttori nel meccanismo del mercato.
Il lavoro di Warhol non è frutto di un riscatto, in esso, non vi è la ricerca di una bellezza dell’ordinario, sembra, invece, che qui, il suo darsi sia cinico, privo di sussulti, persino inoltrato sulla strada del decadimento.
Personalità poliedrica, ossessiva, ed eccentrica, figlio di genitori immigrati ceco-slovacchi, la madre, rutena, appartenente alla Chiesa uniate, era una donna di profondi sentimenti religiosi, Andrew Warhola Jr., in arte Andy Warhol, nato a Pittsburg il 6 agosto 1928, morto a New York il 22 febbraio 1987, pittore, scultore, grafico, sceneggiatore, produttore, regista, direttore della fotografia, montatore, è stato uno dei più significativi esponenti della scena artistica internazionale del Novecento. Il suo lavoro si fonda sui concetti della riproducibilità e della commercializzazione dell’arte, tematiche queste certo afferenti al portato culturale insito nelle fondamentali premesse concettuali introdotte da Walter Benjamin. Protagonista indiscusso della Pop Art americana, Andy utilizza a livello colto, i linguaggi della cultura di massa, le immagini pubblicitarie, i fumetti, il cinema, la televisione, i prodotti di consumo, e quelli di moda; all’esperienza individuale subentra l’esperienza di massa, l’espressione artistica esce dal territorio individuale e si apre alla dimensione sociale, collettiva, addirittura massificante e mercificata. In questo senso, sono esemplari, alcuni lavori di soggetto sacro, realizzati ad acrilico e serigrafia a inchiostro su tela - penso a Raphael Madonna-$6.99 ed a The Last Supper - opere nelle quali i dipinti di Raffaello e di Leonardo sono riprodotti più volte nello stesso lavoro; qui, lucidamente, un iperbolico Andy Warhol, a dimostrazione dell’intervenuta mercificazione dell’arte, inserisce il cartellino ovale del prezzo, (6.99 dollari): è questa un anamnesi impietosa e dissacrante dell’odierno rapporto tra arte e mercato, una relazione all’interno della quale, in sintonia con la previsione di Benjamin, l’opera d’arte è stata ridotta a merce.
Artista capace di declinare, puntualmente, in tutta la sua multiforme attività artistica, i temi della riproducibilità tecnica e della commercializzazione dell’opera d’arte, Andy genera una lista vertiginosa di innumerevoli opere, prodotte in serie con l’ausilio dell’impianto serigrafico.
Andy Warhol si forma presso il Carnegie Institute of Technology, dove, giovanissimo, studia arte pubblicitaria; si laurea nel 1949, quindi si trasferisce a New York, qui comincia a lavorare come grafico pubblicitario, rivelando immediatamente il suo grande talento artistico, e ottenendo numerosi riconoscimenti nell’ambiente della pubblicità. Nella Grande Mela, Warhol, lavora per Vogue e Glamour; nel 1961, esegue le sue prime serigrafie ispirate ai fumetti, ai prodotti commerciali e ai molti soggetti tratti dai mass media; sono immagini che Andy elabora in serie, portando alle estreme conseguenze il principio della riproducibilità dell’opera d’arte e della visione dell’arte come prodotto commerciale; di lì a poco si aprirà la stagione delle Campbell’s soup e dei famosi ritratti della Monroe. I ritratti di Warhol sono soggetti intrinsecamente pop; qui la poiesi del maestro si genera attraverso un procedimento espressivo e mediante l’uso di forme geneticamente informate dalle premesse benjaminiane, relative alla riproducibilità tecnica dell’opera d’arte; la ripetizione continua è il metodo tipico del lavoro di Warhol.
Le opere warholiane sono vere e proprie «icone pop»; l’icona tradizionale, cara alla traditione dell’iconografia dell’arte orientale, è imago speculare di quella di Warhol, la prima, è
rappresentazione dell’eterno, e della pienezza, la seconda, è figurazione dell’effimero, del vuoto, dell’assenza.
L’opera di Warhol è la precisa immagine del vuoto, inevitabile ironia, esito della replicazione seriale delle icone pop attuata entro una rappresentazione artistica ormai condannata a raffigurare feticci; è l’immagine del warholiano Vitello d’Oro, un idolo, dal quale, per altro, il maestro si è lasciato affascinare.
La ripetizione è il metodo tipico del lavoro di Warhol; su ampie tele, il maestro riproduce, moltissime volte, la stessa immagine, alterandone i colori, prevalentemente vivaci e forti, talvolta scegliendo immagini pubblicitarie prelevate dall’iconografia dei grandi marchi commerciali - sono famose le sue bottiglie di Coca Cola - altre volte, prediligendo, altre figure d’impatto, riuscendo sempre e comunque a svuotare di ogni significato l’immagine rappresentata, proprio attraverso la ripetizione dell’immagine stessa su vasta scala.
L’arte di Warhol porta i prodotti presenti negli scaffali di un supermercato, all’interno di una mostra o di un museo; è una provocazione, è la conseguenza della premessa filosofica di Benjamin, ora, secondo i dettami della Pop Art, l’arte deve essere consumata, come un qualsiasi altro prodotto commerciale. I prodotti di massa, rappresentano, secondo Warhol, la democrazia sociale e come tali devono essere riconosciuti.
Il 9 luglio 1962, presso la Ferus Gallery di Los Angeles, si inaugura una fondamentale mostra personale: i soggetti sono le lattine Campbell’s Soup, rappresentate mediante serigrafia e acrilico su tela. Parte della critica considera queste opere piatte e provocatorie, è utile chiedersi, però, come mai, agli albori degli anni Sessanta del Novecento, alcuni barattoli di zuppa, sembrino acquisire la dignità di soggetti, trasformandosi in opera d’arte; certo la lezione di Marcel Duchamp si è rivelata da tempo, ma non va sottovalutata la capacità di Warhol di interpretare il tema della pubblicità e della comunicazione di massa. I suoi primi lavori, tutti appartenenti al mondo dell’illustrazione, stanno dentro a questa dimensione masmediologica-illustrativo-pubblicitaria dell’arte, penso alle rappresentazioni di scarpe realizzate per la rivista Glamour o ancora considero la realizzazione, a partire dal 1949, delle tante copertine degli album musicali, lavori questi, da cui, più tardi, deriveranno alcune opere intramontabili, come la celebre banana sbucciabile di The Velvet Underground e Nico, del 1967, o ancora discenderanno i mitici jeans incernierati di Stiki Fingers dei Rolling Stones, del 1971, ma soprattutto valuto la lectio benjaminiana, secondo la quale nell’epoca della riproducibilità tecnica e del consumo da parte delle masse, una nuova, radicale, trasformazione delle premesse sociali e delle modalità di percezione dell’opera d’arte, certo dipendente dallo sviluppo della tecnica e dall’affermarsi della società di massa, determinano una liquidazione dell’idea tradizionale di arte, quindi del concetto di aura, geneticamente connesso alle idee di unicità e autenticità.
Andy Warhol utilizza sapientemente, a proprio vantaggio, il linguaggio della comunicazione di massa, plasmandolo e qualificandolo, in una nuova forma d’arte. Nell’America warholiana, le opere d’arte, sotto qualunque forma, sono merci derivanti da un processo di produzione profondamente intriso della dimensione sociale propria della società che le produce. I mass media, in quanto dispositivi tecnologici, appaiono a Warhol, come già parvero a Benjamin, un potente mezzo di propaganda ideologica e quindi di flusso monodirezionale della trasmissione culturale; già negli anni trenta del Novecento il sistema mediatico lasciava presagire l’erosione sistematica della separazione culturale tra autore e pubblico, una dicotomia questa, che Andy coglie in tutta la sua disperante realtà, come insita nella natura stessa del dispositivo tecnologico di mediazione. Oggi la televisione conduce all’apice di questo processo di erosione, nel momento in cui internet amplifica vertiginosamente la tendenza alla fluidità sociale dei modelli di consumo culturale. Il risultato è che, nel mondo contemporaneo, sono notevolmente ridimensionati quei sistemi di mediazione accademico-museale tradizionale, che erano ancora pienamente attivi all’epoca di Benjamin. Andy Warhol è stato un protagonista indiscusso di questa diacronia storico-artistica e sociale. L’importanza delle masse nell’età contemporanea si manifesta, in Warhol, principalmente, relativamente alla sua duplice ricezione dell’arte: come desiderio di avvicinare, e di impossessarsi dell’opera d’arte, mediante la sua riproducibilità; attraverso la trasformazione della durata dell’opera d’arte, già evento unico e irripetibile, e ora, nella labilità della sua riproduzione,
consumata sotto forma di immagine. Quello di Warhol è un enorme, gigantesco, messaggio pubblicitario; all’interno del mondo della pop art, egli trova un linguaggio, individua la possibilità di rendersi accessibile a tutti, di trasmettere la sua arte in maniera orizzontale; nascono in questo modo alcune opere famosissime, lavori divenuti, da subito, vere e proprie icone pop.
Nel 1963, una grande mostra, allestita presso la Stable Gallery di Eleonor Ward, segna l’inizio di un’ennesima stagione di successi. Warhol si stabilisce in un ampio loft, dove svolge l’attività di artista, la cosiddetta Factory, luogo d’incontro di artisti e intellettuali, qui si dedica anche alla produzione cinematografica, qui vengono realizzati i montaggi cinematografici. Nel suo studio di New York, Warhol promuove tutta una serie di eventi multimediali registrati, filmati questi che sono il preludio al suo vivo interesse per la fotografia e la cinematografia. Il maestro realizza sia lungometraggi, contraddistinti da monotona staticità, penso a Sleep, del 1963, sia filmati qualificati da una certa tendenza alla narrazione, considero, ad esempio, il film Chelsea Girls, del 1966, uno spettacolo caratterizzato da una proiezione contemporanea di due pellicole su schermi differenti, seguiranno poi Lonesome Cowboys, nel 1967, L'Amour, 1972, Andy Warhol’s Bad, nel 1977.
Warhol frequenta i club alla moda della New York degli anni Sessanta, lo studio 54 a esempio, frequentato da personalità quali Liza Minelli, Paloma Picasso, Truman Capote e Bianca Jagger; i personaggi più popolari dell’epoca, da Liz Taylor a Elvis, sono immortalati dal maestro in ritratti dallo sfondo neutro, opere queste, accentuate dai forti contrasti di colore, tipici dello stile pop art. È iniziata la stagione dei famosi ritratti: Marilyn Monroe; Mao Zedong; Che Guevara.
Durante tutti gli anni Sessanta del XX secolo, la pop art sarà una delle principali forme d’arte che accompagneranno il boom economico, i protagonisti del jet set internazionale, vorranno essere ritratti da Warhol.
Se da un lato, il ritratto del maestro diviene un imperativo, un feticcio, una prova materiale del proprio, elitario, status sociale, dall’altro, esso è la testimonianza tangibile di come il consumo dell’opera d’arte sia ora attuato da un committente, allo stesso tempo vittima e carnefice del processo artistico; un individuo quest’ultimo, un soggetto, che attraverso l’attività dell’artista, qui caratterizzata dalla riproducibilità tecnica dell’opera d’arte, si spersonalizza in immagine, in icona pop, in puro oggetto, divenendo, nelle mani di Warhol, mero prodotto.
Artefice e allo stesso tempo vittima del suo genio, nell’anno 1969, Warhol fonda il magazine Interview, una rivista che affronta argomenti di cinema, di pubblicità, di moda, penso a esempio al numero di Interview magazine recante in copertina il ritratto di Nick Rodes, fondatore dei Duran Duran, un’opera questa firmata da Andy Warhol e Nick Rodes.
Alla stagione dei famosi ritratti della Monroe, siamo sempre negli anni Sessanta del XX secolo, implicitamente si relaziona la più frequentata iconografia warholiana, si pensi alla nota Marilyn del 1967, una serigrafia su carta, 6x6, di 15,2x15,2 cm., editata in cento esemplari, alcuni firmati a matita e numerati con un timbro di gomma, molti altri solo firmati e marcati a.p. a matita sul verso, altri ancora, firmati e non numerati, alcuni solo datati, tutti editi dalla Factory Additions, New York, stampati da Aetna Silkscreen Products, Inc. New York, e pubblicati per annunciare la diffusione del portfolio di Marilyn Monroe.
Alla metà degli anni Sessanta del Novecento, alcuni barattoli di zuppa acquisiscono dignità di soggetto, trasformandosi in opera d’arte, penso al Souper Dress, un documento storico di grande interesse, attienente al mondo delle immagini pubblicitarie relative ai grandi marchi commerciali, le lattine Campbell’s Soup appunto.
La capacità di Warhol di interpretare il tema della pubblicità risale ai suoi primi lavori, tutti appartenenti al mondo dell’illustrazione. Tale facoltà accompagna, diacronicamente, il maestro durante tutta la sua attività artistica. Stanno dentro a questa dimensione masmediologica- illustrativo-pubblicitaria dell’arte, le tarde rappresentazioni di Shoes, soggetti che Warhol riesce, sempre e comunque, a svuotare di ogni significato, immagini d'impatto, caratterizzate dalla ripetizione dell’immagine stessa su vasta scala.
Famosissima è la grande mostra realizzata da Warhol nel dicembre del 1970, presso la Sonnabend Galerie di New York. In questa occasione, Warhol espone tutta una serie di opere di grande, medio e piccolo formato, rappresentanti i Flowers.
All’inizio degli anni Settanta del Novecento la pop art non ha ancora depauperato il suo potenziale innovativo. Dal 1970, Warhol ha iniziato a dedicarsi con rinnovato impegno al tema del ritratto, ora elaborato con tecnica foto-serigrafica, e magistralmente contraddistinto da una manipolazione sapiente, ottenuta per mezzo di pesanti segni grafici, macchie di colore e larghe pennellate. È il caso della Marilyn Tate Gallery del 1971, un ritratto molto particolare, autografato da Warhol, da lui stesso dedicato alla diva.
Il tema del ritratto è assolutamente fondante in Warhol, stando a Pat Hackett la procedura utilizzata dal maestro per ritrarre un soggetto è alquanto elaborata. Andy comincia col mettere il soggetto in posa, scattandogli una sessantina di foto, usando esclusivamente la Polaroid Big Shot; da queste sessanta foto polaroid, Warhol ne sceglie quattro, le fa stampare facendone delle positive 8×10 su acetato, quindi seleziona un’unica immagine, decide poi dove tagliarla, e poi ancora, la trucca per far apparire il soggetto più attraente possibile, a suo piacimento, allunga, rimpicciolisce i nasi, gonfia le labbra, schiarisce la carnagione; infine, l’immagine deformata che ne risulta, è portata ad un ingrandimento 40×40, da quest’ultimo, lo stampatore, fa la serigrafia.
A tale processo creativo direttamente o indirettamente sono certo da ricondurre opere tarde quali le Four Marilyn, ed alcuni celebri ritratti di Man Ray. Risale invece all’anno 1975 la preziosa mostra di Ferrara, allestita presso il Palazzo dei Diamanti da Franco Farina. È questa una grande esposizione introdotta da uno scritto di Pierpaolo Pasolini; Warhol presenzia all’evento rimanendo affascinato dall’Italia. Seguiranno molteplici soggiorni in diverse città italiane, a Napoli, a esempio, nell’aprile del 1980, presso la galleria Amelio, è organizzata un importante rassegna, dedicata ad Andy Warhol. L’ultima grande mostra italiana del maestro risale invece al gennaio del 1987, si tiene a Milano, presso il Palazzo delle Stelline.
Nella primavera del1988, diecimila oggetti già di proprietà di Warhol sono venduti all’asta Sotheby’s, dalla Andy Warhol Foundation for the Visual Arts. Nel 1989 il Museum of Modern Art di New York dedica ad Andy Warhol una grande retrospettiva.
Dopo la morte del maestro, la fama e la quotazione delle opere crescono al punto da rendere Andy il secondo artista più comprato e venduto al mondo, dopo Pablo Picasso. La superba mostra Le Grand Monde d’Andy Warhol, allestita al Grand Palais di Parigi, dal 18 marzo al 13 luglio 2009, celebra la definitiva consacrazione del maestro.
Nel pensiero di Benjamin, l’aura, era hic et nunc, la sua durata era unica, irripetibile, agiva nel momento vissuto, esclusivamente, nel luogo in cui avveniva la percezione, i concetti di unicità, di durata, di estasi, propri dell’hic et nunc, fondavano una parte assai rilevante della fruizione, e dello studio, dell’opera d’arte, la standardizzazione e la riproducibilità tecnica dell’opera d’arte, irrompevano generando una rivoluzione radicale. Dal momento in cui l’oggetto artistico è stato pensato in funzione della sua riproducibilità, inevitabilmente, abbiamo assistito ad una svalutazione dell’aura pre-moderna.
Nel riscontrare il processo di perdita dell’aura, consideriamo che Benjamin è stato uno tra i primi intellettuali a sancire l’equiparazione della creazione artistica con la produzione di una merce. Con Andy Warhol, il trionfo della produzione reiterata dell’opera d’arte ha determinato la risolutiva trasformazione dell’arte in prodotto commerciale, in merce; come già in Benjamin, anche in Warhol, l’arte si è geneticamente votata alla serialità industriale, in tale ambito ha perso di senso, a esempio, il concetto di originale.
In Benjamin, l’analisi dell’industria dei consumi estetici, come pure gli ineluttabili effetti del progresso tecnologico, non sono mai stati associati, automaticamente, a una perdita di qualità, ma piuttosto correlati a una progressiva desacralizzazione, la quale ha finito per favorire l’insorgere di un’esperienza laica dell’arte e della cultura in generale. Oggi, lo spettatore medio risulta viceversa privo dei tradizionali riferimenti di mediazione culturale e sembra orientarsi verso una scelta sempre più inconsapevole; l’istituto della critica sembra svuotato di qualsiasi significato. L’apparente odierna libertà espressiva, di cui gode il contemporaneo fruitore del web, nel commentare un qualsiasi prodotto culturale nel momento stesso in cui ne fruisce, è la piena realizzazione di questo processo di laicizzazione della cultura. Un’evoluzione questa a cui certo non è stato estraneo il lavoro di Warhol. L’attuale natura pervasiva delle tecnologie della comunicazione, produce una mobilitazione quasi automatica, richiesta quasi nel momento stesso in cui si accende la fruizione. L’uomo-massa proiettato in rete è portato a esprimersi su qualsiasi cosa, condividendo la propria esperienza con la platea degli utenti. Il web riduce non solo le barriere tra produttore e consumatore, ma demolisce il perimetro del recinto fisico dell’arte, disciogliendo performance e backstage in un unico flusso quasi indifferenziato.

Guardare, sfruttando protesi digitali, è una modalità espressiva che sempre più spesso viene incorporata nel prodotto estetico, soprattutto grazie a internet. Non più solo artefatti culturali e prodotti della creatività umana: l’odierna comunicazione orizzontale, stimolata da internet, e dai social media, arriva a stravolgere e modificare il modo stesso di concepire l’arte. Il qui e ora benjaminiano, diventa allora un’articolazione puramente sociale, in fondo, il valore rituale, e l’effetto estetizzante delle modalità di fruizione, sono sopravvissuti, svuotati però, anche attraverso l’opera di Andy Warhol, di qualsiasi accezione sacrale. L’idea di opera d’arte è oggi radicalmente cambiata: non più solo una esperienza emotiva, ma anche aggregativa e interattiva. Nell’analisi di Benjamin la soggettività dell’artista perdeva il ruolo centrale nel processo di produzione di manufatti estetici. Parallelamente il tessuto culturale diventava più complesso e cresceva l’importanza delle modalità tecniche, tramite le quali, il produttore entrava in collegamento con il suo pubblico.
Lo sguardo di Benjamin sull’evoluzione dell’arte incorporava la creatività nell’apparato tecnico-produttivo del mondo contemporaneo e spodestava la fabbrica dal centro dell’industria culturale; tant’è che all’autore come produttore, veniva subentrando, l’artista mercante, colui che diverrà il warholiano artista produttore.
Artista mercante, questo è stato Andy Warhol, un grande artista mercante! Nel mercato del gusto estetico ancor prima che le merci, quello che occorre produrre è il loro consumo, e per assicurare la sopravvivenza a questo organismo esistono i ritmi scanditi dal benjaminiano eterno ritorno del nuovo: la moda.
L’attualità del testo di Benjamin, considerata anche in relazione alla conferma della profezia sulla morte dell’arte elaborata da Hegel, si palesa nella mercificazione warholiana del gesto artistico, quest’ultima, certo favorita dal moderno sviluppo delle tecnologie della comunicazione, è talvolta capace di intercettare taluni stimoli propri del fiorire di estetiche dell’indifferenza, di sguardi sempre più cinici, gettati sul gioco dell’assoluta interscambiabilità fra visioni e merci, le quali, oggi, si equivalgono nel mercato globale dell’arte contemporanea. La creatività contemporanea, così disincantata e, solo apparentemente, democratizzata, ha forse definitivamente scalzato ogni pretesa soggettività artistica. Nella profezia di Hegel si esprimeva l’idea di un’arte sempre meno istintiva, più concettuale, critica, ironica. Chi vivrà, vedrà.

Ultima modificaGiovedì, 27 Dicembre 2018 03:48
  • Data inizio: Venerdì, 07 Dicembre 2018
  • Data fine: Sabato, 20 Aprile 2019
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